Quando Andy Warhol disse che un giorno tutti avremmo avuto i nostri 15 minuti di celebrità, forse non immaginava che a beneficiarne sarebbe stato anche Fausto Bertinotti, il più elegante tra i rivoluzionari da salotto, che oggi si libera di due serigrafie di Mao realizzate proprio dal re della pop art. Un gesto che fa più rumore del martello su un’incudine: il compagno Fausto, paladino dei lavoratori, mette all’asta il simbolo del comunismo trasformato in icona capitalista.
Altro che lotta di classe: qui si combatte con le valutazioni di Finarte e a colpi di rilanci. I due Mao (stimati in partenza 150.000 euro) non marceranno più verso il proletariato, ma verso qualche attico minimalista con vista, magari di proprietà di uno che il 25 aprile esce solo per andare in barca. L’ex presidente della Camera, quello che con l’aria da dandy rivoluzionario incantava la sinistra salottiera tra una cachemire e una citazione gramsciana, adesso fa il collezionista in saldo.
Il dettaglio tragicomico? Le opere erano state regalate da Mario D’Urso, banchiere e uomo dell’élite, non esattamente un operaio dell’Italsider. Ma si sa, i veri comunisti amano circondarsi di oggetti borghesi, meglio se griffati. C’è anche una disputa legale con l’erede del donatore, a completare l’odioso teatrino di chi predica uguaglianza ma custodisce Warhol nel salotto buono.
Il tutto condito da una serata d’asta in cui, insieme a Fausto, scendono sotto il martelletto pezzi provenienti da Monica Vitti: de Chirico, Balla… e il gusto amarissimo di un Paese che svende i suoi miti e i suoi paradossi.
Così si chiude il cerchio: il comunismo che si fa glamour, Mao che si fa pop, e Bertinotti che si fa i conti. Col portafoglio. Altro che rivoluzione. Questa è svendita. Di stile, di coerenza e – ça va sans dire – di credibilità.
A cura di Nicola Santini