Esiste una categoria di persone che ti applaude solo finché resti al tuo posto, ti trova simpatico finché non allarghi il tuo spazio, ti stima finché il tuo mondo resta chiuso nella loro mappa mentale. Poi succede che cresci, migliori, allarghi gli orizzonti, ottieni riconoscimenti che arrivano anche da fuori dalla loro cerchia, e improvvisamente l’applauso si trasforma in fastidio. Non è la coerenza che cercano, quella la pretendono solo quando serve a fermare gli altri, non è nemmeno la verità che li muove, perché la verità spesso li infastidisce.
Il problema vero è il movimento: ogni passo avanti diventa per loro uno specchio crudele in cui si riflette la propria immobilità. E lo specchio, si sa, non è colpevole di quello che mostra, ma per chi non sopporta di guardarsi diventa un nemico da rompere. L’invidia per il successo altrui non nasce dal desiderio di avere di più, ma dalla rabbia di vedere qualcun altro ottenere ciò che non si è mai avuto il coraggio o la capacità di conquistare. È una reazione primitiva, che si veste di giudizi moralistici, critiche “costruttive” e commenti pungenti.
In realtà, ogni parola è solo una dichiarazione pubblica della propria frustrazione. Chi ragiona così non disprezza la carriera in sé, ma la carriera degli altri, perché il solo fatto che tu sia andato oltre è la prova che si poteva fare e loro non l’hanno fatto. Il successo, in fondo, è il peggior insulto che puoi infliggere a chi è rimasto fermo: dimostrare che si poteva andare avanti e che l’unico vero ostacolo, alla fine, era la loro paura di provarci.
A cura di Nicola Santini

